La presidente del centro antiviolenza Nesea, Stefania D’Agostino, interviene dopo il suicidio dell’uomo che aveva confessato l’omicidio di Sara Campanella : “Una sconfitta per tutti. Le famiglie condannate all’ergastolo del dolore. Serve una società che prevenga, non solo che reagisca”.
Nessuna vendetta, nessun sollievo. Solo un senso profondo di sconfitta. Così Stefania D’Agostino, presidente del centro antiviolenza Nesea, commenta il suicidio dell’uomo che aveva confessato l’omicidio di Sara Campanella, la giovane brutalmente uccisa alcuni mesi fa.
Il gesto estremo dell’assassino, avvenuto a pochi giorni dall’inizio del processo, segna un’ulteriore ferita per una famiglia già devastata dalla perdita.
“Sara è stata uccisa una prima volta da chi ha scelto di toglierle la vita. E una seconda volta oggi, perché le è stata negata la possibilità di verità e giustizia, senza nemmeno il diritto di affrontare un processo che potesse dare dignità alla sua morte”, denuncia D’Agostino.
La morte del reo confesso lascia infatti in sospeso il percorso giudiziario, negando ai familiari della vittima l’unica forma di giustizia rimasta: vedere l’assassino affrontare un processo, assumersi le sue responsabilità, scontare una pena.
“Due famiglie – continua D’Agostino – sono state condannate all’ergastolo del dolore: quella di Sara, spezzata dalla perdita di una figlia, e quella dell’uomo, travolta da un abisso di vergogna e impotenza.
Due storie diverse, unite da una tragedia che nessuno avrebbe mai dovuto vivere”.
Il centro Nesea sottolinea anche come in questa vicenda non siano mancate le lacune: una richiesta di perizia psichiatrica, fondata su documentazione clinica, è stata respinta.
Nessuna misura concreta è stata adottata per proteggere Sara da un soggetto ritenuto pericoloso.
“Non si è protetta una donna. Non si è protetta la giustizia. Argentino ha ucciso due volte: prima lei, poi la possibilità di un processo.”
D’Agostino invita alla riflessione, non all’odio: “Non è il tempo del rancore social, ma della presa di coscienza collettiva. Tutti abbiamo una responsabilità.
Dobbiamo educare i nostri figli all’affettività, al rispetto, al valore delle relazioni e al significato della parola ‘no’. Dobbiamo parlare loro del dolore e insegnare che chiedere aiuto è possibile.”
Il messaggio finale è un appello alla società: agire prima, non solo dopo. “Serve un sistema che prevenga, che ascolti, che protegga. La morte di questo uomo non cancella nulla. Non offre giustizia. Non dà pace. Rende solo tutto più buio”.
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